Ciao e bentornatə a Masafuera, un progetto caotico, un contenitore di cose da portare in un posto lontano.
Certe cose sono sgraziate, oscene e bestiali, altre pure e sacre e spirituali: ma sono tutte cose mie.
James Joyce
Cosa vale i miei cinquanta euro
Cinquanta euro sono tantissimi. Si esauriscono in quarantacinque minuti, dove i primi e gli ultimi cinque sono convenevoli ciao ciao come stai, bene dai oggi fa caldo, scusa il ritardo. Se anche fossero quarantacinque minuti pieni, ogni minuto varrebbe già più di un euro. Un euro e qualcosa, non sono brava a fare i calcoli. Però prendiamo trentacinque, esageriamo diciamo quaranta minuti. È complicato capire cosa vale i tuoi soldi, cosa merita di essere portato in quei minuti carissimi. Sono stati meno cari, sono stati anche gratis.
Quando erano gratis parlavo di tutto, anzi odiavo andarci. Scialacquavo senza ritegno il privilegio temporaneo facendo i capricci con me stessa, perché avevo deciso da sola di andarci e nonostante questo puntavo i piedi. Mi trovavo male, non capivo le metafore. Per me dire Sto male bastava e avanzava, ora per dire sto male dico cose tipo È come se volessi ballare e mi accorgessi di non avere le gambe oppure Mi sento predestinata al dolore. Sto male forse era più carino, a ripensarci. Però era gratis e quindi andava bene sperimentare, fare il gioco dell’altra persona, imparare a parlare la sua lingua. Finché non mi sono accorta quanto fosse più utile dire Mi sento predestinata al dolore anziché uno sterile Sto male.
Dopo essermi accorta di quanto articolare il pensiero e anche il male fosse utile, il tempo gratuito era finito, ma ero convinta che il mio dolore, ora esploso come un disegno geometrico che ti introduce nelle viscere di un cardine, valesse i miei soldi. Il prezzo era una cifra simbolica, ancora lontano dal binomio cinquanta euro quarantacinque minuti.
La prima volta che ho pagato però ho sentito qualcosa schiaffeggiarmi con i miei stessi soldi e bloccarmi su quella poltroncina di pelle tutta consumata nella stanza dalle pareti cobalto con i quadretti di Freud — banale — appesi qua e là. C’erano mille oggetti in quella stanzetta, tutti comprati con i miei soldi forse. Un pianoforte, ecco forse quello non l’avevo pagato io, forse un altro paziente, con più problemi e quindi più soldi immagino. Io forse, pensandoci onestamente, a quel punto avevo pagato solo un fermacarte: aveva la forma di un animale, forse un rinoceronte, forse molto pesante, sembrava qualcosa di pregiato ma il più delle volte avevo gli occhi annacquati, non vedevo nulla nitidamente. Spendevo dei soldi e l’unica cosa che sapevo attingere da quella stanza erano le pareti blu cobalto, una tendina rotta e forse un fermacarte rinoceronte.
A quel tempo ero totalmente immersa nel mio propedeutico momento prima della spesa: era diventato un compito riassumere preventivamente i miei pensieri, scriverli, e portare la bella in quella stanza blu cobalto. Quando questa cosa è emersa — sono stata beccata — mi è stato detto che quello spazio non era un banco di prova, non dovevo arrivare preparata. Sembravo quel tipo di donna che va dal parrucchiere con i capelli già puliti, per non fare brutta figura. Più mi sforzavo di andare nelle peggiori delle condizioni più mi ripulivo, strigliavo i sentimenti, sistemavo le parole — quello perché sono una vanitosa democristiana forse — e mi presentavo sempre con dei problemi quasi del tutto risolti. Pagavo trentacinque euro per arrivare con il lavoro già fatto: in pratica pagavo qualcuno per dirmi che ero abbastanza intelligente per arrivarci da sola.
Un giorno ho fatto il grande passo. Una volta ottenuto quello che mia madre chiamerebbe un lavoro vero, dove la sua veridicità risiede nella stabilità economica, nella RAL e nei buoni pasto, sono andata in quella stanza ormai tutta bianca e ho fatto la splendida, dicendo che dal mese prossimo avrei pagato i fantomatici cinquanta euro. Non avevo ancora appreso molto rispetto alla fase trentacinque, eppure volevo fare il salto di livello: segretamente sospettavo che pagando meno avrei risolto meno, avrei ricevuto risposte più vaghe, come se fossi tornata a una versione demo di un gioco che volevo permettermi.
Ora che spendo cinquanta euro per parlare quarantacinque minuti non so mai cosa dire. Ogni volta che non mi viene una parola o mi fisso a guardare il muro mi sento una cretina. Però so ancora dire Sono predestinata al dolore. Ogni volta che parlo del lavoro che faccio per essere lì a parlare quarantacinque minuti— anzi ricordiamoci i calcoli, anche meno — per cinquanta euro, mi sembra di sprecare il tempo e i soldi. Raziono ogni lacrima, ogni nome superfluo, provo a non prendermi in giro e a volte mi trovo a metà del mio tempo, penso al mio bancomat, riavvolgo il nastro e provo a parlare cercando di fare l’unica cosa che bisognerebbe fare quando paghi cinquanta euro per quarantacinque minuti: essere liberi di fare schifo.
Che brutta persona sarei se tornassi così dal nulla, cambiando i connotati di questo posto e non ti lasciassi neanche dei regali? Una brutta persona, esattamente quella che sono.
Tre libri che ho letto che mi hanno fatto innamorare, discutere e pensare (in questo ordine):
Ho finito, giuro che torno presto.
Elisa
Trovo interessante quando scrivi "pensavo che pagando meno avrei risolto meno", sottolinea un legame inquietante che abbiamo col denaro e le sue destinazioni non tangibili. Pagare di tasca nostra per un benessere invisibile ci fa sentire in azione e allo stesso tempo in una situazione di rischio , è un investimento vero e proprio.
(Yuknavitch è magnifica, anche i suoi racconti in Verge valgono il tempo che richiedono).
Bello e doloroso, grazie