Ciao e bentornatə a Masafuera, un progetto caotico, un contenitore di cose da portare in un posto lontano.
(uno due e tre album per leggere)
La pena e la penna
Quando ho sentito Lidia Yuknavitch parlare dal vivo in una libreria a Milano, lo scorso ottobre, ha detto che le nostre storie devono essere raccontate. Non si riferiva a storie precise di un pubblico preciso. Non sapeva nulla di noi, se non che il suo libro ci aveva stregati al punto da starcene stipati in una libreria che stava contenendo il doppio delle persone che poteva contenere.
“Le storie vanno raccontate” ripeteva con la sua voce avvolgente, sinuosa come un’onda. Non solo per un ritorno personale: noi, certamente, in quanto proprietari siamo coinvolti e spinti a portare tutto al di fuori, far strabordare il nostro ego fra le pagine e gli anfratti digitali. Per lei le nostre storie e il nostro esternarle non sono solo una questione che serve all’Io ma qualcosa che serve soprattutto all’altro, al muro che ascolta. Servono perché meritevoli, perché salvifiche, perché speciali in quanto nostre? Non solo. Alcune saranno illuminanti — per me La cronologia dell’acqua di Yuknavitch lo è stata — altre saranno ordinarie, altre parleranno di persone normali e forse proprio per questo parleranno a una moltitudine.
Da quasi un anno ormai mi pongo molte domande intorno allo scrivere.
Ora che sulla carta il mio compito è scrivere mi chiedo di continuo cosa voglia dire farlo, e soprattutto perché farlo. Riporto qui queste domande scrivendo, appunto. Mi dico che è perché sono arrivata a uno stadio in cui ho superato — almeno il tempo di stesura di questo testo — il rigetto che provo per lo scrivere. A dire il vero è una lotta intestina che sento anche mentre digito.
L’altra sera appuntavo:
Per me la scrittura è fatica, macigno, ostacolo, infiammazione a ogni falange quando scrivo, affaticamento e fiato corto. E anche: sguardo fisso sullo schermo bianco, pensieri che non ho la forza di assecondare sulla carta e comunque desiderio.
Essendo per me tutto questo e molto di più a volte neanche faccio la fatica di annotare. Lo faccio a lavoro, mossa da un obiettivo esterno che cancella la fatica il macigno e il fiato corto. Quando si tratta di me, il mio sistema immunitario entra in un risparmio energetico che mi lascia giusto le forze di scrivere a voce, nella mente, facendo rimbombare frasi e storie solo dentro le pareti della mia immaginazione.
Ma tutto quello che rimane inespresso muore ancor prima di prendere vita. È una cosa che cerco di non fare in diversi aspetti della vita — quello che provo per le persone per esempio — ma con la scrittura trattengo infiniti sassolini per paura siano inutili, brutti, insipidi; per il timore di non avere la forza di scrivere e riscrivere. Per non venire a patti con l’ego che ti fa pensare di avere qualcosa da dire.
Tra un pezzo e l’altro di questa Masafuera ho letto I margini e il dettato, il libro di Elena Ferrante che raccoglie le sue lezioni sullo scrivere, sue e di chi l’ha ispirata a farlo. Il titolo La pena e la penna che ho impunemente rubato viene da lì. Se Yuknavitch mi aveva detto un perentorio scrivi Ferrante in queste lezioni racconta la lotta contro il margine e la scrittura stessa, che non sembra mai abbastanza per essere scritta.
Poi è passato il tempo e tutto si è complicato. Ho cominciato a muovere guerra a me stessa: perché questo, perché non quest’altro, va bene così, non va bene. Nel giro di pochi anni già mi pareva di non saper scrivere più. Nessuna mia pagina era all’altezza dei libri che mi piacevano, forse perché ero ignorante, forse perché ero inesperta, forse perché ero donna e quindi mielosa, forse perché ero stupida, forse perché ero senza talento.
Leggere Elena Ferrante per me è un costante promemoria delle sfumature di pensiero sociale, culturale e politico di una donna e di come qualcuna sia riuscita a mettere in fila pensieri così ingarbugliati nelle menti di molte di noi, che ancora annaspano cercando la riva, il filo del discorso e il senso di questi margini. Ti senti capita. In questo passo del libro è racchiuso uno dei tanti fiumi che attraversano mente, lingua e mani ogni volta che penso di scrivere. A questi fiumi impetuosi se ne aggiunge uno, il più grande per me in questo lungo periodo: la legittimazione di un’ego, che non sempre le donne sono abituate ad allenare, soprattutto quando si parla di velleità artistiche.
Mesi fa ho scritto che ciò che non mi fa scrivere è che ho quello che manca a molti uomini — uomini scrittori, categoria di persone alle quali la società insegna a espandere l’ego e farsi sospingere da esso verso quello che si vuole — e cioè la convinzione che non tutto quello che pensiamo sia rilevante. Anzi, quasi nulla. L’ego ce l’abbiamo tutti — la terapia te lo insegna forte e chiaro — e negli anni ho capito che meglio legittimarsi a coltivare l’ego buono e salutare che soffocarlo, lasciando spazio a un tipo di ego ferito, egocentrico nel dolore.
Questa Masafuera doveva andare verso quella direzione: scavare dentro l’interrogativo legato a una sorta di sviluppo di un’ego maschile e femminile diverso, che sprona i primi a esporsi e credere che abbiano sempre qualcosa da dire. Ma onestamente, non mi va più, questo spazio è mio e questa domanda avrà altre sedi e altre riflessioni.
Sempre mesi fa, mentre riflettevo, una cara amica scrittrice — che quindi questo impasse l’ha vinto davvero — mi ha risposto che, secondo lei, quello che permette di chiudere la frase, la riga e il foglio è la legittimazione a scrivere perché si ama farlo. Per tenere traccia del bello, per amore di quello che stai scrivendo.
In questi giorni, mentre cercavo di chiudere questo testo cercavo di chiudere un discorso con una persona a me cara. Riaprivo e chiudevo. Riaprivo, dovevo dire un’ultima cosa, poi chiudevo per davvero. Poi rimaneva qualche sassolino d’amore, e non mi andava di lasciarli inespressi. E così ieri ho mandato un ultimo messaggio, perché mi erano rimasti dei sassolini di testo nelle bozze del computer, scritti per tenere traccia di quel bello e che avevo dimenticato: di solito non annoto mai il bello e quel bello era tale anche su carta, non volevo tenerlo solo per me ma condividerlo con chi quel lo aveva ispirato.
Amelia Rosselli ha scritto:
proprio prima di dover partire scrissi
perciò voltando il dorso alla promessa
cose molto belle che solo tu con la
tua faccia infantile da ragazzo
costretto ad esser fiero puoi indicarmi.
Sì, scrissi finalmente cose belle, tutte
per te - non v'era pubblico più disattento.
Quindi forse da questo sproloquio non ho capito molto, se non che alla fine quei sassolini te li devi togliere e li devi scrivere.
📚 letti
📚 che vorrei leggere/sto leggendo
Grazie per la pazienza, ci troviamo presto su quest’isola.
Elisa